Borgo di Roghudi

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Roghudi Vecchio, una delle ultime città fantasma italiane, ha origini greche.

Nel 1971 contava una popolazione residente di circa 1.650 persone, ma esso, essendo stato edificato in una delle zone più piovose della Calabria, veniva spesse volte colpito da eventi alluvionali estremi, fino ad arrivare a quello del 1971, che in due giorni fece precipitare sulla zona l’equivalente della pioggia che normalmente cadeva in un anno.

L’evento rese il paese isolato per diverso tempo, provocò diversi morti e dispersi e rese inagibili diverse abitazioni.

Successivamente l’allora sindaco Angelo Romeo, il 16/02/1971, firmava l’ordinanza con la quale imponeva lo sgombero di tutte le famiglie presenti.

Questa, venne accolta da gran parte della popolazione, che venne spostata nell’odierna Roghudi, delocalizzata in un territorio a valle che all’epoca venne concesso dal comune di Melito Porto Salvo.

Alcuni irriducibili, per lo più anziani legati a doppio filo al loro territorio, ignorarono l’ordinanza e continuarono a vivere con estremi disaggi nella loro borgata, ma dovettero cedere di nuovo alla forza della natura che si ripresentò in modo ancora più violento nella notte del 29/12/1973. Da allora a Roghudi venne annoverato il triste titolo di Città Fantasma.

Una piccola curiosità del luogo: ai muri esterni delle abitazioni venivano fissati grossi chiodi a cui venivano legate delle corde, all’altro capo delle funi venivano legati i bambini per le caviglie. Questa che può sembrare una pratica barbara era invece resa necessaria per evitare che gli stessi cadessero dagli altissimi dirupi presenti in ogni dove, e venne adottata dopo la morte di numerosissimi bambini.

Alcuni giurano che recandosi in quei luoghi, di notte, si possono sentire ancora i loro lamenti salire dai dirupi verso il paese, ma questa è solo leggenda… Forse.

IL NOME

Roghudi deriva dal greco “rogòdes“, pieno di crepacci o da “rhekhodes“, aspro.

PERSONAGGI ILLUSTRI

Roghudi e la frazione Chorio di Roghudi, hanno dato i natali a grandiosi poeti, i cosiddetti “Poeti operai” tra cui Mastrangelo, ovvero Angelo Maesano “padre” dell’inno dei Greci di Calabria “Éla mu condà”, Francesca Tripodi e Salvatore Siviglia.

LA STORIA

Il sito storico dell’antico borgo ellenofono di Roghudi, che fu anch’esso casale di Amendolea, è posto a 527 metri di altitudine su un enorme dente di roccia al centro dell’immenso cuore della fiumara Amendolea, in un territorio alquanto accidentato, in una continua altalena di monti e dirupi.

Lungo la strada che un tempo valicava l’Aspromonte, la stessa percorsa da Norman Douglas nel 1915, nel viaggio da Delianuova a Bova, si giunge alla sparuta frazione semi abbandonata di Ghorio di Roghudi, nei pressi del quale è possibile scorgere due formazioni geologiche che sembrano stare a guardia dell’intera vallata: la “Rocca du Dragu” e le cosiddette “Vastarùcia”, cioè caldaie del latte.

Poco oltre Roghudi, borgo fantasma oramai da cinquat’anni. Richoudon, dal greco Rhogodes, che vuol dire crepacci, è citato per la prima volta su documento catastale bizantino risalente alla metà del XI secolo, come nucleo abitativo nei pressi del quale vi erano i tenimenti del monastero di Sant’Angelo di Valle Tuccio. Allo scadere del secolo fu annesso al feudo di Bova, per passare alla fine del XII secolo nella baronia dell’Amendolea fino al 1806. L’alluvione del secolo scorso cacciò via i pastori e i contadini grecanici che l’abitavano da secoli, facendo di Roghudi il simbolo della geografia di abbandoni che caratterizza oggi l’Aspromonte.

SCOPRIRE IL CENTRO STORICO

Immergendosi nel fascino degli itinerari aspromontani, tra boschi di alberi secolari, profonde gole e limpidi torrenti, si giunge a Roghudi. La carica suggestiva e le storie di questo luogo disabitato permeano tutto il paesaggio circostante.

A evocare miti e leggende anche due formazioni geologiche naturali simboli dell’Aspromonte Greco: la Rocca del Drago e le Caldaie del Latte.

La “Rocca du Dragu“è un grosso monolite con incisi, su un fianco, due cerchi che alludono a grandi occhi; le “Vastarùcia“, cioè caldaie del latte, prendono il nome della loro forma sferica che ha dato origine alla leggenda, secondo la quale, sarebbero servite a nutrire un drago, custode di un tesoro. Qualcun altro sostiene invece che prendono il nome proprio dalla loro conformazione simile a quella delle pentole in cui si bolliva il latte, “a cardara”.