La Capra Aspromontana
Descrizione
La capra è tra i più agili e aggraziati animali dell’Aspromonte Greco. Presente fin dalla preistoria è perfettamente adattata ai suoi magri pascoli e alle pareti scoscese delle sue montagne, grazie alla capacità d’equilibrio che gli consente d’inerpicarsi ovunque, persino sugli alberi. Il fabbisogno alimentare di una capra è infatti pari a un decimo di quello di un bovino, pur essendo la sua produzione di latte superiore.
Questi animali venivano allevati non solo per il latte (gala) ma anche per le carni e le pelli, da cui si ricavavano vesti e otri, tamburi e strumenti a fiato come ad esempio le zampogne.
Già Columella, celebre cuoco romano, decantava il sapore delle carni dei caprini del Bruzio, consigliando quelle delle “gastrole, così chiamate una volta diventate adulte, ma che non hanno ancora prolificato”. Sua la ricetta del tutto simile a quella detta oggi alla vutana, cioè alla bovese, in cui la carne di capra, dopo essere ben marinata, è bollita semplicemente con alloro, cipolle e sedano.
Dell’abbondanza di capre nell’Aspromonte Jonico accenna successivamente il cronista arabo ‘Abu al-Fida (1273-1331), quando fa riferimento al gran numero di capi sgozzati alle pendici del castello di San Niceto, durante una incursione saracena. Fin dal Medioevo l’allevamento caprino rivestì un peso considerevole nell’economia locale, al punto che i pascoli furono rigidamente regolamenti. Sappiamo, infatti, che nel 1116, Riccardo Amigdalia, consentì ad alcuni monaci di San Bartolomeo de Trigonio di portare le greggi del monastero nei versanti aspromontani jonici, mentre nel 1134 Ruggero II, concedette il diritto di pascolo nella Valle del Tuccio, all’archimandritato del Santissimo Salvatore di Messina. Trasgressioni alle norme venivano severamente punite, come accadde, per esempio, all’ebreo Elia di Gerace, a cui nel 1451 fu sequestrato il gregge, di 500 capi, che il figlio aveva portato a pascolare nella terra di San Lorenzo. Nel corso del Cinquecento l’allevamento caprino era, insieme a quello del baco da seta, la maggiore fonte di reddito, tanto che i feudatari dell’area applicavano il diritto di decima, prelevando ai “massari” un animale ogni cinquanta. Durante l’età Moderna questi animali erano dunque considerati preziosi dai pastori dell’Area Grecanica. Nel 1616, Marco Antonio Politi definì i castrati allevati ad Africo “di strana grandezza e di robustezza tale da portar a guisa di cavai corsier sul dorso”. Più di un secolo dopo è Domenico Alagna ad affermare che i formaggi caprini della diocesi di Bova “vincono la squisitezza dè più fini di altre contrade”. Lo storico ricorda inoltre produzioni di “ottimo cacio e dei più perfetti raschi d’Europa senza alcuna esagerazione, quali diconsi volgarmente ricotte salate, e questa preziosità sì dà ai pascoli come il non cacciar più il butirro dal latte che li rende grasse e dolcissime”.
Tra questi prodotti caseari, una citazione va riservata ad un tradizionale formaggio da tavola, consumato esclusivamente nel periodo pasquale, detto musulupo, “boccone del lupo”. Simile alla tuma, questo formaggio fresco viene ancora preparato con metodi e strumenti artigianali, confezionato in particolari stampi antropomorfi chiamati musulupare. Si accompagna alle verdure di stagione, alla pasta e nella vigilia di Pasqua diventa base per una tipica frittata della Bovesìa.
Anche l’allevamento segue pratiche antiche, le stesse dei pastori greci e bizantini che per secoli hanno condotto le loro greggi attraverso transumanze dalle coste fino i monti più inaccessibili dell’Aspromonte. Ovunque si scorgono greggi di capre percorrendo in lungo e in largo l’Area Grecanica.
Per meglio comprendere il rapporto che lega i Greci di Calabria alle capre, basta fare un accenno alla varietà di termini impiegati per distinguere ogni minima caratterizzazione di questi animali, parole che risuonano identici anche nell’isola di Creta. Ad esempio capra in grecanico si dice ega, caprone tràgo, capretto rifi, al femminile chiùmera. La capra di due anni gastra, il capretto di un anno annòtico, l’intero gregge jìdia. Ma non finisce qui. L’animale dalla testa bianca prende il nome di barbarisca, quello con il manto grigiastro canavèddhà; la capra con il manto nero e la testa bianca è detta sargopì, quella con il manto grigio e il muso bianco murinì. Senza corna si chiama papazza, con le corna grosse tragùna. Vi erano anche denominazioni per gli animali sterili, zzìro, gravide òtimo, e persino aggettivi per capre che facevano parti gemellari, kemeddhàra…
Testo di Pasquale Faenza